Kosovo, la fucina jihadista nel cuore dell’Europa

C’è una sottile linea rossa che collega Tripoli a Pristina, ed è la linea dell’intervento NATO, che poi diventa anarchia ed infine jihad.

Ad oggi infatti il Kosovo è, senza timore di smentita, la vera e propria palestra europea dell’ISIS. Già nel 2014, come riportato dal SEERECON, la CIA vi identificava circa 150 foreign fighters, mentre lo stesso Kosovar Centre for Security Studies, con stime più aggiornate, parlava di ben 232 jihadisti in partenza per Siria ed Iraq. I dati, ad oggi, superano le 300 unità, secondo alcune stime, fra cui quella del New York Times, riportate anche da la Repubblica.

È enorme il numero di arruolati alla causa che questo piccolo lembo di terra dei Balcani ha prodotto, soprattutto in relazione alla sua popolazione. Se da un lato infatti si potrebbe pensare che i numeri siano bassi, comparati, ad esempio, ai più di 1200 combattenti partiti dalla Francia, è evidente che se messi in relazione alla popolazione (1 milione 800mila abitanti) di un territorio grande quanto l’Abruzzo, il punto di vista cambi totalmente e porti a capire quanto l’incidenza sia in realtà altissima.

E queste cifre, che di per sé sono un dato gravissimo, non rappresenterebbero nemmeno il dato peggiore: sono continui infatti nella regione i vari appelli alla jihad di cui ormai neanche le autorità sembrano più stupirsi. Che i Balcani siano potenzialmente esposti al pericolo del radicalismo islamico appare scontato avendo 3 aree a prevalenza di fede musulmana (Bosnia, Albania, Kosovo) e una forte presenza anche in Montenegro e Macedonia; ma come si è arrivati al punto da renderla una tale fucina di terroristi? Facciamo un passo indietro.

Nel 1999 la guerra in Jugoslavia è finita da 4 anni, ma sono continue le tensioni e i conflitti nell’area kosovara tra i serbi e l’etnia albanese. La federazione Jugoslava (ormai solo Serbia e Montenegro) guidata da Milosevic attacca infatti molto duramente l’area (all’epoca territorio serbo) in cui si manifesta la forte presenza dell’UCK (esercito di liberazione del Kosovo), portando all’intervento NATO, che si proponeva, tramite l’Operazione Allied Force di “stabilizzare la regione”.


Un copione letto più volte, se non fosse che questo ricorda particolarmente le primavere arabe, perché l’UCK è stato sempre considerato, non solo dalla Serbia, ma anche da tutta la comunità internazionale, USA inclusi, come un’organizzazione terroristica: legata probabilmente ad Al-Qaeda ed Osama bin Laden, finanziata dalla criminalità, vicina alla mafia albanese e su cui più volte è caduta l’accusa, mai smentita, di traffico d’organi. Nonostante ciò nel 1998 gli Stati Uniti e il Regno Unito li cancellano dalla loro lista nera e li supportano in chiave anti-serba, un po’ come avevano fatto per i talebani in chiave anti-sovietica.

L’operazione dura poco più di due mesi e porta all’abbandono del Kosovo da parte delle forze jugoslave con conseguente protettorato NATO sulla regione.

Nonostante l’indipendenza dichiarata nel 2008, oggi il Kosovo non può considerarsi uno Stato autonomo. Il diritto internazionale prevede infatti che vi debba essere, per ottenere una legittimazione come Stato, la capacità di gestire autonomamente il potere su un territorio, cosa che, nonostante i vari riconoscimenti (che però hanno natura prettamente politica e non giuridica) degli Stati esteri, Unione Europea in testa, le autorità kosovare non riescono a garantire. Sono infatti ancora massicce le presenze sulla regione di NATO e UE, che dovrebbero avere dunque un importante ruolo nella gestione del fenomeno terroristico che oggi sembra invece in continua espansione.

Come la Libia quindi, il Kosovo viene invaso e abbandonato (anche se non formalmente) dalla NATO, che, dopo essersi avvalsa dell’integralismo islamico per perseguire i suoi obbiettivi militari, lascia la regione nel più completo caos.

L’emblema dei ridicoli risultati portati a casa è Ferizaj, città di 100 000 abitanti, descritta, come riporta l’agenzia russa Sputnik, dai servizi di sicurezza come il maggior centro d’addestramento di Daesh in Europa. La località infatti è quasi confinante con la base americana di Camp Bondsteel (la più grande base USA all’estero dai tempi del Vietnam). Una situazione paradossale a cui si aggiunge l’esistenza di un altro paese, di 30 000 anime, Kacanik, che pare essere invece il nucleo principale del fenomeno di arruolamento. La cittadina è una ex roccaforte dell’UCK, nonché terra d’origine di Lavdrim Muhaxheri, detto “Il Macellaio”, un feroce membro della “Brigata Balcanica” dell’ISIS, che avrebbe a sua volta lavorato per la NATO anche in Afghanistan nel 2012 e, fino al 2010, proprio nella base americana che, anche da Kacanik, dista pochissimi chilometri .

L’area più interessata è quindi proprio quella intorno alla principale base delle operazioni americane, le cui responsabilità , con l’UE, sono quindi storiche quanto attuali. Possibile che non si riesca ad arginare il fenomeno in cittadine che distano al massimo 19km dalla principale base operativa? Che senso ha la presenza occidentale sul territorio? Che obbiettivi raggiunge l’EULEX (la missione dell’Unione Europea) che appare, ad oggi, un totale fallimento in un Paese sempre più morsa di narcotraffico, criminalità e jihadismo?
Le “democrazie occidentali” sono inoltre senza ombra di dubbio tra le maggiori responsabili del dilagare del fenomeno anche dal punto di vista storico, considerato che, come oggi in Siria e come ieri in Libia, avevano ancor prima in Serbia messo in atto il copione dello spacciare terroristi per ribelli moderati da armare, al solo scopo di rovesciare governi non allineati.

La situazione kosovara odierna è quella di un Paese nel più totale disordine, dove la povertà è incredibilmente diffusa, un abitante su 5 vive con meno di un dollaro al giorno, lo stipendio medio è di 300 dollari al mese e la disoccupazione giovanile tocca il 60%. In questo contesto gli unici benefit economici arrivano dalle monarchie del Golfo, specie i sauditi, che però sembrano avere il solo scopo di radicalizzare il territorio inviando, dal ’99 ad oggi, flotte di imam wahabiti ad arruolare giovani per la causa.

Shpend Kursani  del già citato Kosovar Center for Security Studies ritiene che siano proprio “il disorientamento sociale e le deboli condizioni politiche ed economiche” ad aver provveduto a creare “terreno fertile per la radicalizzazione”. Inoltre, la corruzione delle autorità e l’inefficacia/disinteresse di Bruxelles nel progetto di state-building hanno lasciato ampio spazio di manovra a diverse ONG islamiche e all’Arabia Saudita, che finanziano direttamente o indirettamente la costruzione di moschee wahhabite e la ristrutturazione e ricostruzione delle abitazioni distrutte dalla guerra con la Jugoslavia di Milosevic.

Muhaxheri stesso è sospettato di aver fondato o di essere collegato ad alcune organizzazioni caritatevoli presenti in Kosovo (tra cui Rinia Islame) che predicherebbero visioni radicali e opererebbero, secondo le accuse, perché sempre più giovani kosovari affluiscano nelle fila dei foreign fighters in Iraq ed in Siria. Sempre Kursani riporta infatti che “è difficile sapere da dove queste organizzazioni ottengono i propri fondi, ma quando si tratta del momento di finanziare il trasferimento di persone in Siria, diverse fonti, fra cui un’istituzione per la sicurezza statale [del Kosovo], indica che il finanziamento è supportato da piccole casse messe a disposizione da Takfiri i quali raccolgono il denaro per destinarlo a potenziali foreign fighters”.

L’unica reazione al fenomeno da parte delle autorità è rappresentata dalla legge contro i foreign fighters emanata da Pristina nel 2015 e dal centro specializzato anti-terrorismo aperto dalla NATO in Albania nel 2016. Una passata di vernice su un muro che sta crollando sotto i colpi del disinteresse e delle colpe storiche. Questa è la realtà di un Paese che a descriverlo sembrerebbe uno di quelli mediorientali, ma che in realtà dista non più di un centinaio di chilometri in linea d’aria dalla Puglia. Il tutto sotto gli occhi di un Occidente, rivelatosi in questi anni, nel migliore dei casi, solo disattento ed immobile quando non apertamente complice.

(di Simone De Rosa ed Elia Bescotti)