Sacrifici umani e riti di sangue nell’Antica Roma

E’ il 2 agosto del 216 a.C. Nella piana di Canne, in Puglia, si affrontano in battaglia l’esercito della Repubblica Romana e quello cartaginese guidato da Annibale. Il condottiero cartaginese, guidando con estrema abilità le sue truppe, riuscirà ad accerchiare e quasi distruggere l’esercito romano. Sarà una delle più schiaccianti sconfitte subite da Roma, e una delle principali battaglie della Seconda Guerra Punica. Una delle principali fonti per ricostruire i tragici eventi di quella giornata è lo storico Tito Livio, che ne parla diffusamente nel suo Ab Urbe Condita Libri. E’ Tito Livio a descriverci la composizione degli eserciti avversari, le mosse dei rispettivi comandanti, l’andamento dello scontro e il numero dei caduti.

Tito Livio tuttavia racconta anche un altro episodio relativo alla battaglia di Canne, un episodio poco conosciuto e sicuramente macabro; lo storico descrive infatti come, prima dello scontro, due prigionieri Galli e due prigionieri Greci vennero sacrificati. Il fine del sacrificio umano era quello di ingraziarsi gli Dei e di ottenere il loro favore in vista dell’imminente battaglia. Dato il risultato, non si può certo dire che abbia funzionato. Seconda la cronaca di Livio, inoltre, i Romani decisero di compiere questo sacrificio anche per rimediare alla condotta indecente di alcune sacerdotesse Vestali. Tito Livio non fornisce informazioni su quale sia stato il destino di queste ragazze, ma non è da escludere che siano state anche loro coinvolte nel sacrificio umano.

Dieci anni prima della battaglia di Canne, nel 226 a.C., a Roma furono sacrificati agli Dei altri quattro prigionieri, sempre Galli e Greci. I malcapitati vennero seppelliti vivi nel Foro Boario, con una cerimonia solenne. In quel periodo l’Urbe era pericolosamente minacciata dalle popolazioni celtiche che premevano da nord, e non è da escludere che il sacrificio umano servisse proprio per scongiurare il pericolo. Dopo una consultazione dei Libri Sibillini, i sacerdoti decisero di procedere con l’uccisione dei prigionieri. I due Galli furono scelti proprio per simboleggiare le popolazioni nemiche che minacciavano Roma da nord, mentre per i Greci la questione appare più dibattuta. In ogni caso Greci e Galli erano, in quel momento storico, i nemici per eccellenza della Repubblica Romana. In quell’occasione i Romani riuscirono a respingere gli invasori, e il supplizio dei prigionieri ebbe esiti più favorevoli rispetto a Canne.

Probabilmente i Romani adottarono la pratica di sacrificare i prigionieri seppellendoli vivi dai loro vicini Etruschi. E’ infatti storicamente accertato, anche grazie a diversi reperti archeologici, che gli Etruschi erano soliti seppellire esseri umani per ingraziarsi (o placare) le proprie Divinità. Furono loro i primi che probabilmente scelsero di immolare contemporaneamente prigionieri Galli e Greci. I primi rappresentavano, per gli Etruschi, i nemici settentrionali, mentre i secondi occupavano i territori a sud dell’Etruria. La morte rituale di membri appartenenti a entrambi i popoli acquisiva dunque un significato di protezione dalle aggressioni esterne e di fortuna in battaglia. Lo stesso significato che gli diedero i Romani prima di Canne e nel 226 a.C.

Presso gli Etruschi, tuttavia, la morte per sepoltura non era l’unica forma di sacrificio umano utilizzata. Diversi scheletri sepolti nelle necropoli di Tarquinia, ad esempio, presentano ferite e menomazioni che sono quasi sicuramente ascrivibili a un’omicidio religioso e rituale. Nella cittadina viterbese è stata trovata una cavità, simile a un pozzo, che per secoli gli Etruschi hanno utilizzato come tempio di una divinità femminile. All’interno della cavità sono state trovate dieci sepolture. Tre dei sepolti sono certamente morti per morte naturale, ma tutti gli altri (compresi alcuni bambini in giovane età) presentano ferite mortali probabilmente collegate a qualche pratica sacrificale. Il caso più emblematico è quello di un bambino di circa 10 anni, sgozzato e decapitato all’interno della stessa area sacra alla divinità.

Tito Livio, che riporta l’episodio delle due coppie sacrificate prima di Canne, ne condanna comunque la pratica, definendola barbara e legata a credenze non appartenenti alla tradizione di Roma. Non è dello stesso parere invece Plinio il Vecchio, secondo cui i sacrifici umani erano praticati dai Romani fin dai tempi della fondazione dell’Urbe. Se è vero che essi adottarono questi costumi dai vicini Etruschi, siamo più portati a supportare il pensiero di Plinio. La stessa scelta delle coppie da sacrificare non era un caso, né nella società etrusca né in quella romana. A essere seppelliti vivi erano un maschio e una femmina appartenenti ad alcuni popoli nemici. Si trattava dunque di un sacrificio propiziatorio. Etruschi e Romani, immolando la coppia, auspicavano la fine stessa della popolazione nemica.

Secondo Sallustio e Cicerone anche Catilina, per guadagnare il favore degli Dei nella sua imminente congiura, avrebbe praticato alcuni rituali che comprendevano sacrifici umani. Catilina avrebbe inoltre imposto agli altri congiurati di bere il sangue della vittima immolata, per legarli a sé in modo indissolubile con questo turpe delitto. Bisogna comunque dire che sia Sallustio che Cicerone avevano tutto l’interesse a gettare discredito sulla figura di Catilina, anche a costo di inventare fatti negativi sulla sua persona. Siamo comunque verso gli ultimi anni della Repubblica, e la pratica dei sacrifici umani è ormai quasi del tutto sparita dalla cultura romana. O, perlomeno, è ormai sempre più vista come una cosa barbara e aberrante.

Con l’arrivo dell’Impero possiamo dire che la pratica del sacrificio umano vada sparendo in maniera quasi definitiva. Sacrifici umani vengono tuttavia ancora praticati a Roma e nei territori sottomessi, ma si tratta di riti più che altro legati alle nuove divinità importate dall’Oriente. Un caso è quello della dea Ma, divinità guerriera di origine anatolica il cui culto fu importato nell’Urbe dai legionari di Silla. Durante le cerimonie a Ma non erano rari i sacrifici umani, e spesso i fedeli bevevano sangue umano. Tuttavia le autorità romane cercarono di limitare, se non reprimere duramente, queste pratiche. In un caso, durante un’ispezione al tempio della dea Ma nei pressi del Campidoglio, furono trovati numerosi vasi pieni di brandelli di carne umana e parti di cadavere. Gli accoliti della divinità anatolica furono imprigionati e il culto disperso.

Sebbene i Romani smisero ben presto di praticare queste pratiche sanguinose, retaggi di sacrifici umani restarono presenti nella cultura dell’epoca. Alla metà di maggio, per esempio, le Vestali si recavano in processione al ponte Sublicio. Qui, con una cerimonia solenne, gettavano nel Tevere 27 fantocci di giunchi con sembianze umane. Non è da escludere che questo rituale non fosse che la versione senza spargimenti di sangue di un più antico rito cruento. Gli stessi giochi gladiatori, sotto un certo punto di vista, non erano che sacrifici umani. Non più, però, dedicati agli Dei, bensì a Roma e ai suoi cittadini.

(di Andrea Tabacchini)