La squallida origine culturale dei “giovani” anti-tornelli

 

La celebre pellicola diretta da Gabriele Muccino Come te nessuno mai del 1999 rappresenta, con ostentato realismo, come, alla fine degli anni Novanta, studenti di scuola superiore, a Roma, partecipavano a manifestazioni e occupazioni dei loro istituti di appartenenza. Essi vengono ritratti nell’atto di lottare contro l’omologazione dell’individuo, sebbene il chiaro riferimento al pensiero di Pasolini non incoraggiasse in nessuno di questi giovani contestatori la lettura delle sue opere.

Si era in una fase della politica estera e interna italiana per essi apparentemente poco adatta a sollevare proteste, ma che, a posteriori, sappiamo essere stata decisiva per gli attuali destini del nostro Paese. Ciò malgrado, questi giovani imbevuti di entusiasmo politico, intendevano autoidentificarsi all’interno di una non meglio identificabile categoria di rivoluzionari del terzo millennio, diversi dai padri, ancora diversi dai nonni, il cui esempio era da accantonare, rifiutare tout court.

Non era troppo strano, in quegli anni, interrogarsi sull’effettiva identità di coloro che i sedicenti “impegnati politicamente” definivano “acquiescenti”, quando non persino “reazionari”. Ai tempi in cui si organizzavano ancora dilettosi cortei contro le ingrate politiche dei governi di centrodestra, aggettivi affini ai su menzionati servivano ad uno scopo ben preciso: quello di denotare cittadini scarsamente proclivi a fruire dell’informazione politica attualmente a disposizione ovunque e per chiunque. Tali cittadini risultavano dunque colpevolmente ignari della propria facoltà di levare una voce di dissenso in contrappunto con il coro dei paladini della “posizione”.

Protagonisti incontrastati di questi “riti di massa” risultano essere ancora quegli stessi giovani, per età anagrafica come per età mentale, tesi a rendersi alfieri di un continuo e incontrastabile rinnovamento di costumi, ancora costretti entro una morale lesiva delle potenzialità creative del singolo. Nulla deve opporsi alla loro parola. Nulla deve ostare il ruolo soteriologico della loro azione. Emuli di quegli stessi loro genitori che, un tempo in piazza contro il capitalismo borghese, in seguito si erano macchiati dell’onta di divenire borghesi in prima persona, non esitano all’uopo di insultare questi ultimi con l’epiteto di “fascista”. Ad essi sono particolarmente cari “motti”, “gridi di battaglia” che includano espliciti riferimenti alla lotta contro il sistema.

A titolo di esempio, è utile ricordare quello impiegato dal Collettivo Universitario Autonomo, a Bologna, il 10 febbraio, a giustificazione degli incresciosi atti dei quali si è reso autore: “Riaprire le porte dove loro le chiudono”. C’è qui una chiara allusione al riferito intento dell’attuale amministrazione statunitense di “erigere muri”, coartare la “società aperta” – altro chiaro riferimento non già ad una dottrina politica, ma ad una dimensione dell’essere – “ritornare indietro”, o meglio ancora, corrompere il sostanziarsi di un’entelechia dello spirito umano, il cui punto di partenza è racchiuso nel celebre incipit della Metafisica di Aristotele.

Nella loro furia iconoclasta, gli studenti del CUA si sono ben guardati dal difendere il libero accesso alla cultura, dei quali si proclamano, in ogni caso e in ogni dove, esclusivi depositari. A dimostrarlo non bastano le sole immagini diffuse in rete dei danni da essi procurati per comprenderlo. Sempre in via apparente, per questi ragazzi è intollerabile non poter catalogare il vivente come rientrante in una data fascia ideologica in termini di schieramento e di partecipazione. Osservare l’evoluzione della realtà politica italiana e mondiale dal chiuso della propria camera da letto, è attitudine indisponente per questi fautori di una concezione imperativa della “posizione”. Non è ammesso, in altre parole, il concetto di “consapevolezza”, per essi sinonimo di “impotenza”, che un tempo indicava piuttosto una “nozione dei propri limiti”, bacchetta rabdomantica utile a godere di una panoramica delle cose più vasta, eppure circostanziata a seconda della qualità e della provenienza delle fonti di informazione.

Tutto questo, in buona sostanza, edifica una concezione ludica della politica giovanile. Nei suoi “gridi di battaglia” ricorre spesso l’assunto “Ti senti oppresso? Spacca tutto!”, indice di una vocazione al dilettantismo, alla strategia della compensazione selvaggia, a una tensione a rifiutare ogni disposizione alla disciplinata consapevolezza, in favore di una illusoria autoconvinzione di onnipotenza. I luoghi in cui essi si radunano non sono sempre e comunque le sezioni di partito, sempre meno frequentate, o i centri sociali, che, oggi, di “sociale” sembrano mostrare ben poco.

Anche e soprattutto i collettivi universitari, come abbiamo visto, accolgono personalità di questo stampo. In essi è possibile constatare, senza bisogno di abbandonarsi a domande retoriche di dubbio gusto, che la parte preponderante delle organizzazioni politiche giovanili tende alla malsana velleità piuttosto che alla creazione di un’entità concretamente attiva. I collettivi universitari sembrano raccogliere una varietà di soggetti non necessariamente ribelli al sistema, e che, in quanto tali, a costo di evitare ogni forma di mediazione diplomatica delle proprie esigenze familiari e sociali con chi gestisce economicamente e psicologicamente la loro esistenza, ritengono preferibile trascorrere tutta la propria vita a sognare utopie rose dal tempo, avvolti da un perenne nugolo di fumo, abbandonati al muro di una birreria metropolitana.

Sovente questi giovani militanti politici non sembrano propensi ad impegnarsi in un’azione politica di vasto respiro, presi come sono, soprattutto negli schieramenti progressisti, da un sacro fuoco di ribellione contro quello stesso ceto medio ai cui rappresentanti loro genitori puntualmente battono cassa, per soddisfare la propria fame di dottrina fine a sé stessa, ammettendo che ne siano ancora abbrancati. Molte sono le polemiche, risolvibili anche con alterchi e risse, che vengono indirizzate a tali organizzazioni per l’inadempienza pratica dei loro progetti, e per la monocorde inconsistenza dei loro dibattiti, alla cui partecipazione, pure, si cerca di attrarre quanta più gente possibile con il pretesto di abbandonarsi allo stravizio.

Per questi giovani “antisistema” è lecito affermare che l’estrazione sociale determina sempre e necessariamente un orientamento politico in termini di soddisfazione di date esigenze. In virtù di questo, nelle classi meno agiate il miglioramento delle loro condizioni economiche dovrebbe essere presupposto essenziale per la promozione della cultura. In questa maniera, pure, si dà adito alla contraddizione per cui una data ideologica politica, nel suo ecumenismo, da un lato dovrebbe sollevare le sorti degli oppressi, ma dall’altro ne affossa vieppiù gli umori, coonestando, così, quella stessa apatia sistemica contro il cui dilagare si battono ogni giorno.

È infatti attraverso l’immersione nel sapere che questi giovani militanti dovrebbero, al termine o nel corso della loro carriera, disporre di un panorama culturale da ampliare anche grazie al metodo rigoroso degli studi da essi affrontanti.

Spesso e volentieri, costoro tendono a trascurare tanta opportunità e a rinunciare ad un’analisi imparziale e sistematica dei fenomeni esterni. Molti di essi rimangono giorno dopo giorno invischiati nella pania della delusione per il corso di studi prescelto, prima considerato entusiasmante, ora tedioso e male ideato. Tutto quel che risulta avulso dalla concretezza dei fatti che essi sono portati a ritenere a mente, per i loro doveri di gregariato, è da giudicarsi gravoso, inutile, logorante.

Dalla frustrazione della falsa premessa per cui ciascuno di essi può, attraverso il su riferito autoconvincimento all’onnipotenza, ottenere qualsiasi cosa voglia, origina l’ultima, pudica ammissione del fallimento intrinseco delle loro prospettive. Ciò li porterà ad abbandonarsi all’ essenza dell’esistenza commerciale: a questo mondo non c’è alternativa.

(di Elio Cassiodoro)