L’inevitabile fine del “centro-destra”

Se in occasione della manifestazione leghista di Bologna, nel Novembre 2015, le due anime del centrodestra italiano – quella “liberale” e quella “sovranista” – sembravano aver trovato una sintesi comune, oggi le strade di Berlusconi e dell’asse Salvini-Meloni appaiono sempre più prossime a separarsi.

Poco più di un anno dopo la mobilitazione bolognese, nella manifestazione “Italia sovrana” di Sabato 28 Gennaio 2017, promossa dalla leader di FdI Giorgia Meloni, è scesa in piazza soltanto una parte della coalizione di centrodestra. La parte più dinamica e rampante, senza dubbio, ma pur sempre una parte. Infatti, nonostante fossero presenti gli azzurri più vicini alle istanze sovraniste, l’assenza di Silvio Berlusconi non è passata inosservata. E ha un significato politico ben preciso: la sintesi di una volta non c’è più.

Troppe sono le tensioni sorte nel lasso di tempo compreso tra le due mobilitazioni di popolo. Troppe le questioni aperte che sembrano ben lontane da poter trovare una pacifica risoluzione. A tenere banco su tutte è il controverso nodo della leadership: chi dovrà guidare la coalizione alle prossime elezioni politiche? Nei mesi passati le parole al riguardo si sono sprecate; ciò nonostante la situazione non è cambiata di una virgola. In sintesi: Salvini e Meloni chiedono di passare attraverso le primarie, mentre Berlusconi vuole imporre la sua persona per diritto acquisito, oppure designare autonomamente il suo presunto successore. Non è cosa da poco: il dibattito sul leader è molto di più che un totonomi per la poltrona più ambita del Paese.

Tra i partiti che una volta formavano una coalizione tutto sommato coesa esiste ormai un abisso ideologico incolmabile, e la controversia sulla leadership è diventata il principale terreno di scontro tra due vocazioni politiche inconciliabili: l’una europeista e liberale, autodefinitasi “moderata”, l’altra sovranista con accenti protezionistici. Insomma: a mancare è un’identità comune di fondo. E non ha alcun senso, per legittimare il ritorno del vecchio modello, invocare quelle realtà locali dove il centrodestra nella sua versione classica vince o viene riconfermato. I Governatori di Regione ed i Sindaci – si sa – non hanno voce in capitolo sulla politica monetaria, tantomeno sulla politica estera della nazione. Due temi, questi e non altri, che sono oggi giorno divisivi in tutto l’Occidente.

Con queste premesse non è azzardato prevedere che le tensioni interne al centrodestra si protrarranno ancora a lungo, fin quando alla vigilia delle elezioni la fune tesa tra europeisti e sovranisti si spezzerà definitivamente, e ognuno correrà per se stesso. A meno che, beninteso, una delle parti in causa non faccia un passo indietro a favore dell’altra, rinunciando alle proprie istanze più radicali. Ma è difficile pensare che nelle stesse settimane in cui il forzista Tajani è stato eletto presidente dell’Europarlamento, e Salvini ha incontrato in Germania gli altri leader antieuro d’Europa, qualcosa sul fronte della politica interna italiana possa cambiare per davvero.

Dunque la rottura si consumerà. È questione di tempo, e non sarà una tragedia per nessuno. Né sarà un’anomalia se le realtà locali continueranno ad essere governate dal centrodestra classico, mentre a livello nazionale ciascuno si presenterà da solo. Del resto, se l’alternativa alla corsa solitaria delle sue anime è il compromesso ad ogni costo, il rischio per il centrodestra italiano è la nascita di un governo paralizzato da spinte programmatiche divergenti. Un governo moderatamente sovranista che offrirebbe, in breve tempo, il fianco a un’emorragia di voti che i partiti, alla luce della facilità con cui oggi i cittadini danno e tolgono fiducia ai progetti politici, non possono più permettersi in alcun modo.

(di Cesare Crocini)