Bianco, troppo bianco

Platone aveva davvero le spalle larghe, oppure il suo soprannome – “ampio” – indicava in senso lato la dimensione del suo pensiero? Aveva un cane, un gatto o un pesce rosso? Se fosse vivo ai nostri giorni, posterebbe le foto dei suoi viaggi in Sicilia su Instagram? Ma, soprattutto, aveva la pelle bianca o nera? Questioni che per chiunque abbia un minimo di discernimento, di fronte all’importanza della sua opera filosofica tramandata e studiata a distanza di millenni, valgono esattamente quanto il famoso “sesso degli angeli”: quisquilie, bazzecole e pinzillacchere irrilevanti. Nessuna di essa sminuisce, vanifica, scalfisce l’importanza di Platone nel contesto della filosofia occidentale. Oppure sì?

Con un immaginario balzo spazio-temporale, dalla selvaggia eppur culturalmente florida regione ellenica di cinque secoli prima di Cristo, arriviamo al Regno Unito del 2017. È infatti nota la recente politica del governo inglese verso le Università britanniche, che intende proporre, accanto a un criterio di valutazione basato sulla qualità delle ricerche, un nuovo sistema – il Teaching Excellence Framework (TEF) – in base al quale premiare gli istituti migliori.

Tra i nuovi criteri, spicca in particolare quello della “soddisfazione degli studenti”. Encomiabile, a primo impatto. Nessuno vuole vedere un possibile futuro membro della classe dirigente camminare per i corridoi della facoltà come se stesse percorrendo l’ultimo miglio del braccio della morte, all’inseguimento di una laurea che finalmente ricompensi e ponga fine alle sue lunghe agonie. Pare però che questa attenzione alla “soddisfazione degli studenti” abbia comportato anche delle spiacevoli quanto curiose conseguenze nella qualità degli insegnamenti e nello svolgimento dei dibattiti pubblici all’interno delle Università. Perché allora parlare di Platone? Perché scomodare il grande filosofo greco per parlare dei laureandi inglesi di quasi duemilacinquecento anni a lui posteriori? E, di nuovo, Platone aveva la pelle bianca o nera? Lo si vedrà a breve.

Come ha riportato per primo l’8 gennaio il quotidiano The Telegraph, per la penna di Camille Turner, il sindacato degli studenti di una università inglese – non un Ateneo di quarto ordine, bensì la School of Oriental and African Studies (SOAS), il più autorevole istituto di studi umanistici, linguistici e sociali dell’Africa, dell’Asia e del Medio Oriente – ha prodotto un documento intitolato “Educational priorities proposed for 2016-2017”: essenzialmente, una lista di richieste che gli alunni avanzano per migliorare la loro esperienza universitaria e dunque, presumibilmente, anche la loro “soddisfazione”.

Il quarto punto di tali “priorità educative” è il più interessante, forse proprio perché ha, da solo, fatto rivoltare nella loro tomba più o meno tutti i pensatori degli ultimi venticinque secoli. Il titolo è un programma: “Decolonizzare il SOAS: affrontare le istituzioni bianche”. Quell’aggettivo razziale non fa prevedere assolutamente nulla di buono; difatti, pare che gli studenti abbiano richiesto al corpo docenti di “assicurarci che la maggioranza dei filosofi studiati nei nostri corsi provenga dal Sud del mondo. Il SOAS è incentrato sull’Asia e sull’Africa, dunque la base delle nostre teorie deve provenire da filosofi asiatici o africani”, e che “se ci sarà richiesto di studiare filosofi bianchi, che i loro lavori vengano insegnati da un punto di vista critico […] riconoscendo il contesto coloniale dal quale provengono i filosofi del cosiddetto Illuminismo [sic]”. Quod non fecerunt barbari.

L’imperativo del Politicamente Corretto consiste nell’attribuire un’importanza addirittura vitale al colore della pelle dei filosofi. Non solo: in quanto bianchi, il loro pensiero deve essere analizzato solo ed esclusivamente da un “punto di vista critico”, gettando automaticamente sulle loro opere e le loro vite un’assurda accusa di pregiudizio razzista e, nel caso dei “cosiddetti Illuministi”, colonialista. Di fatto, decontestualizzandoli dall’epoca e dalla cultura nella quale essi produssero le loro elucubrazioni – con tutto ciò che ne consegue in fatto di assetti politici, rapporti di potere, rapporti sociali, senso di appartenenza, moralità sessuale e così via – e ricontestualizzandoli indebitamente nel nostro tempo, guardandoli con le lenti della cultura attuale.

Si tratta della stessa logica (o fallacia?) “iconoclasta” e oscurantista che spinse, nel 2012, un’associazione culturale a chiedere alle Nazioni Unite di bandire lo studio di Dante Alighieri in Italia, in quanto “presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposto senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all’antisemitismo e al razzismo”. Viene da chiedersi quanto sia davvero culturale tale associazione, se arriva a trattare il sommo poeta come un Himmler ante litteram.

Si potrebbe chiudere l’articolo qui e derubricare questa assurda richiesta come il risultato di troppi fish-and-chips acquistati in fame chimica; ma, purtroppo, questo episodio è solo il buco nel terreno che introduce al Paese delle Meraviglie Politicamente Corrette. Per mostrare quanto è profonda ancora la tana del Bianconiglio, citiamo altri due articoli che hanno destato scalpore.

Il primo è uscito sul sito Vox.com nel giugno 2015; il secondo, di taglio ben più scientifico, su The Atlantic nel settembre dello stesso anno. I rispettivi titoli: “Sono un professore liberal, e i miei studenti liberal mi spaventano” (I’m a liberal professor and my liberal students terrify me), a firma di Edward Schlosser – in realtà uno pseudonimo –, e “La mente americana viziata” (The coddling of the American mind) di Greg Lukianoff e Jonathan Haidt.

Si parla, nello specifico, del contesto universitario statunitense, lo stesso che ha di recente istituito degli psicologi per far fronteggiare agli studenti il “trauma” dell’elezione di Donald Trump, ma le stessi tesi si possono applicare tranquillamente anche alle Università inglesi e anglosassoni in generale – e forse, un giorno, anche alle nostre. Nel primo articolo, a parlare è un professore delle scuole superiori che mostra come, da alcuni anni a questa parte, si siano intensificati i reclami degli studenti ai loro docenti, colpevoli di “urtare” la loro sensibilità in diversi modi: un film troppo forte, un commento fuori luogo, una discussione di vago sapore politico diventano motivi di condanna per gli insegnanti, anche con conseguenze sulla loro carriera lavorativa – e sulla scelta dei temi da trattare o evitare (censurare?) durante le lezioni.

Schlosser conclude che gli studenti non solo rifiutano di discutere “idee scomode”, ma che rifiutano di discutere del tutto: nelle loro emozioni-reazioni immediate si conclude tutto il giudizio; se dà fastidio, non è lecito parlarne. I sentimenti sono posti al di sopra del piano della ragione. Prendendo le mosse anche dall’articolo di Schlosser, “The coddling of the American mind” parla di come il concetto di “politically correctness” si sia trasformato, rispetto agli anni ‘80 e ‘90, da un lodevole tentativo di rispettare le minoranze nelle Università e di allargare gli studi ad aree del mondo prima snobbate – dunque di allargare le prospettive in maniera inclusiva – a un’assurda e psicotica difesa degli studenti verso qualunque forma di pensiero che rischi di metterli “a disagio”. Una parola, una frase di troppo che può potenzialmente causare “stress” diventa dunque uno psicoreato di orwelliana memoria.

Da qui la teorizzazione dei campus come “safe spaces”, dove è divenuto intollerabile proporre qualunque idea che possa contrariare chicchessia; il ché equivale a bandire, necessariamente, ogni opinione. Gli autori la chiamano “protettività vendicativa”, ovvero “un clima nel quale chiunque deve pensare due volte prima di prima di parlare, onde evitare accuse di insensibilità, aggressione o peggio”. Le conseguenze? Oltre a stroncare sul nascere qualunque tentativo di dibattito libero – sia per i professori che per gli opinionisti invitati a discutere alle università – si è arrivati ad elaborare una neolingua priva di determinati termini “scomodi” (ad esempio, è più opportuno parlare di “violazione” anziché di “stupro”, per non scatenare il trauma di eventuali sopravvissute) o addirittura libri (“Le Metamorfosi” di Ovidio, perché parlano di violenza sessuale, o “Mrs. Dalloway” di Virginia Woolf perché tratta invece del suicidio).

La fragilità viene insomma nutrita e istituzionalizzata anziché affrontata, con la conseguenza di rendere i giovani incapaci ad affrontare il mondo esterno e reale, che è tutt’altro che un “safe space”. Il caso degli studenti del SOAS rientra perfettamente nei casi descritti: si esige che i filosofi “bianchi”, soprattutto quelli “colonialisti” – poiché evocano periodi della nostra storia sì tragici, ma sempre veri – siano declassati e privati a prescindere della loro autorità intellettuale, elevando sul podio altri, reali o presunti, filosofi “ethnic-chic” che magari non hanno la avuto la stessa importanza ma che, provenendo da quella che loro considerano la “parte giusta del mondo”, hanno maggiore diritto di parola. Come se Rousseau fosse diventato il padre della pedagogia sbandierando il suo passaporto francese.

E a proposito di Rousseau, è opportuno ricordare ai cari studenti inglesi che egli, pur essendo uno dei disprezzati filosofi “cosiddetti illuministi”, non fu certo un fautore dell’ideologia schiavista, così come non lo fu Voltaire – sebbene quest’ultimo sostenesse, è vero, la supremazia dell’uomo bianco, pur senza giustificare l’asservimento dei popoli africani. Ma non pretendiamo certo che i nostri amici d’oltremanica sappiano che fu proprio nel periodo illuminista che «la condizione degli schiavi cominciò ad attirare l’attenzione e le critiche dei ceti più colti» (Treccani).

D’altronde cosa ci si potrebbe mai aspettare da ragazzi abituati a restare prudentemente in una “safe space” rassicurante, ma anche infantile e superficiale, invece di tuffarsi – come ci si aspetterebbe da uno studente di filosofia degno di questo nome – nelle profondità del pensiero umano? Come possiamo pretendere che capiscano che, se si rifiutano di confrontarsi con la diversità di vedute, si auto-precludono la possibilità di sviluppare un’opinione autentica, asservendosi di fatto ai dettami di un pensiero che non gli appartiene ma cui aderiscono in modo irriflesso? Cosa ci si potrebbe mai aspettare da una generazione così priva di umiltà e così piena di sé da arrogarsi il diritto di puntare il dito sui giganti della filosofia?

Chiunque sia dotato di un minimo di onestà intellettuale riconoscerebbe che si tratta di un’operazione assolutamente indebita (per essere gentili) e ignorante (per essere realisti). Come se, tra l’altro, questi ragazzi avessero anche solo un decimo dello spessore di un Platone, di un Rousseau o di un Heidegger (l’innominabile nazista!). E per tornare finalmente alla domanda “Platone aveva la pelle bianca o nera?”, la risposta poco politicamente corretta (ma vera!) è: chissenefrega.

(di Federico Bezzi e Camilla Di Paola)