Lukashenko: l’ago della bilancia dell’Est Europa

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Ci si potrà stupire, talvolta, di come i leader delle potenze europee siano disposti a riunirsi al tavolo delle trattative insieme a Vladimir Putin proprio in quel di Minsk con tutti gli onori riservati al e dal leader bielorusso, Aleksandr Lukashenko. D’altronde, “l’ultimo dittatore d’Europa” non è mai stato particolarmente simpatico agli establishment dell’Occidente, sia per la sua vicinanza alla Federazione Russa, sia per la sua dura opposizione ai movimenti d’opposizione filo-europei e, quindi, per il fatto che la Bielorussia non sia certo un baluardo di democrazia all’occidentale o di libertà d’espressione. Tutto questo, ormai, importa sempre meno: le sanzioni che furono imposte dai paesi europei alla Bielorussia sono state revocate quasi del tutto. Ma se la Bielorussia è così legata alla Russia (ma, un momento: lo è davvero?) e un regime così terribile e autoritario, perché mai Aleksandr Lukashenko dovrebbe essere premiato con questo trattamento?

Facciamo un passo indietro e ripercorriamo alcune tappe della recente storia bielorussa: Aleksandr Lukashenko viene eletto presidente della repubblica di Belarus’ per la prima volta nel luglio del 1994 ed è rimasto, almeno sino ad oggi, imbattuto alle elezioni. Nello stesso anno viene adottata la Costituzione la quale prevede, secondo l’art. 18, la neutralità della Bielorussia e il suo status di Paese non nuclearizzato. Nonostante ciò, nei primi anni della presidenza di Lukashenko si assiste ad una sostanziale impostazione della politica estera bielorussa in termini filorussi, che porterà i due paesi, nel 1996, a concludere lo spostamento delle testate atomiche sovietiche dal territorio bielorusso a quello russo e l’istituzione dell’Unione Statale Russia-Bielorussia. I motivi di questa scelta affondano principalmente nei saldi rapporti economici fra Mosca e Minsk, dovuti anche alle preesistenti infrastrutture soprattutto energetiche, e nel mantenimento di buoni rapporti con una potenza nucleare con la quale, ancora nel ’93, è stato firmato un trattato sulla sicurezza collettiva.

Il potere di Lukashenko è stato seriamente minacciato per la prima volta con l’allargamento ad Est della NATO e, in particolare, con l’inclusione dei paesi baltici nell’organizzazione transatlantica nel 2004: alla mancata reazione russa, che non si è spinta oltre ad una formale seppur notevole condanna, il Presidente bielorusso ha sentito di non poter più contare pienamente sull’alleato storico e di rimboccarsi le maniche e cercare un dialogo con l’Occidente. È inoltre interessante vedere come il periodo che va dal 2003 al 2005 non sia stato solo l’anno in cui la NATO ha incluso ben sette nuovi paesi all’interno delle proprie strutture (Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia, Romania, Bulgaria), ma anche l’anno più proficuo per le rivoluzione colorate nell’area post-sovietica: l’insediamento di Mikhail Saakashvili a guida della Georgia dopo la rivoluzione delle rose, la rivoluzione arancione in Ucraina e la rivoluzione dei tulipani in Kirghizistan.

Lukashenko, con elezioni presidenziali del marzo 2006, intuì che la Bielorussia avrebbe potuto essere la prossima: dopo aver vinto con l’83% delle preferenze scoppiò nella piazza principale di Minsk una serie di proteste, supportate dallo stesso governo americano, che videro la partecipazione di circa 30.000 persone riunite sotto l’insegna dello Zubr (зубр in bielorusso), l’animale nazionale della Bielorussia (una specie di bisonte), nella cosiddetta rivoluzione dei jeans. L’intuizione di Lukashenko fu corretta: la protesta venne duramente repressa e diversi manifestanti incarcerati. Una ferma condanna arrivò ovviamente dall’Occidente, i cui governi e istituzioni giudicarono le elezioni truccate, e imposero sanzioni contro Lukashenko stesso e membri del suo establishment.

Lukashenko decise dunque di fare a modo suo: cercò di allacciare buoni rapporti con la Polonia e i paesi Baltici, cioè i paesi più critici sul fronte anti-russo, i quali hanno ospitato e ospitano diversi leader dell’opposizione bielorussa filo-occidentale, strizzando anche l’occhio all’opposizione extraparlamentare russa. Nonostante ciò i rapporti con la Russia sono rimasti saldi, per quanto altalenanti, dal momento che il 40% delle esportazioni bielorusse è diretto proprio verso la Federazione Russa. Nel tentativo di guadagnare maggiore indipendenza da Mosca, Lukashenko decise di far partecipare la Bielorussia al programma di partenariato orientale dell’Unione Europea e di stringere relazioni migliori con la Cina, arrivando a richiedere l’inclusione nella Shangai Cooperation Organization, di cui dal 2015 è membro osservatore. Nonostante ciò, la Bielorussia è stata e rimane uno dei membri più attivi nel processo di integrazione eurasiatica, dall’istituzione dell’Unione Doganale con Russia e Kazakistan nel 1996 fino alla nascita dell’Unione Economica Eurasiatica il 1° gennaio del 2015.

Eppure, non è sulla collaborazione con le grandi potenze che la Bielorussia ha ottenuto il ruolo di bilancia all’interno dell’area post-Sovietica più prossima all’Europa, ma attraverso il mantenimento di ottime relazioni bilaterali con i principali nemici della Russia e, in particolare, con i membri del GUAM (Georgia, Ucraina, Azerbaijan, Moldavia). Il primo passo fu quello di levare il supporto all’Armenia nel conflitto del Nagorno-Karabakh, avvicinandosi alle posizioni azere. Questo fu seguito dal non riconoscimento delle repubbliche di Abcasia e Ossezia del Sud dopo il conflitto russo-georgiano del 2008, pur evitando di sostenere una delle parti e comportandosi davvero, per la prima volta, come paese neutrale nella questione. Sullo stesso livello, Lukashenko ha fermamente condannato l’annessione della Repubblica di Crimea da parte della Federazione Russa, pur consigliando al governo ucraino di evitare una soluzione di forza e di scendere a compromessi con Mosca circa la restituzione del territorio perduto. I rapporti con Kiev hanno tuttavia subito un raffreddamento dopo il rifiuto da parte di Minsk di approvare la risoluzione ONU nella quale si condannava la Russia per violazione dei diritti umani nella stessa Repubblica di Crimea. Mossa politica di Lukashenko utile a non compromettere troppo i rapporti con la Russia.

Dopotutto, almeno per il momento, la Bielorussia non può fare a meno della Russia: la sua economia, dipendente principalmente dalla produzione agricola e dall’industria petrolchimica, è ben integrata all’ex sistema sovietico e dipende per la fornitura di petrolio quasi unicamente dal mercato russo. Un tentativo di bilanciare l’influenza del petrolio russo nel mercato bielorusso venne fatto nel 2010 quando Lukashenko stipulò con Hugo Chavez una fornitura di petrolio proveniente dal Venezuela, la quale sarebbe stata impossibile da ottenere se prima Minsk non avesse migliorato i propri rapporti con i paesi limitrofi con uno sbocco sul mare. Sempre sul piano economico, inoltre, la Bielorussia, così come gli altri paesi membri dell’Unione Eurasiatica, si è astenuta dall’imporre sanzioni ai paesi occidentali dopo la crisi ucraina e anzi, fra il 2014 e il 2015, si è comportata da trafficante di prodotti occidentali soggetti ad embargo verso il territorio russo. Sulla stessa linea la decisione di non compromettere i propri rapporti economici e diplomatici con la Turchia dopo l’abbattimento dell’aereo russo nello scenario siriano, scelta operata anche da Kazakistan e Kirghizistan, i quali mantengono stretti rapporti, sia commerciali sia culturali, con Ankara.

In sostanza, i motivi per cui Lukashenko è stato sdoganato dalle democrazie occidentali è legato al fatto di non essere più un alleato di Mosca così fidato e di godere di buoni rapporti con tutte (o quasi) le élite delle ex repubbliche sovietiche. La partecipazione della Bielorussia a numerosi progetti di integrazione eurasiatica, la dipendenza economica e il rispetto della minoranza russa, tuttavia, garantiscono buoni anche se altalenanti rapporti con la Federazione Russa la quale, nel caso di un cambio di regime, non avrebbe troppi problemi a strangolare economicamente l’ex repubblica sovietica. Inutile dire che Lukashenko questo cambio di regime non lo vuole e tantomeno vuole saperne di rivoluzioni colorate o aperture all’opposizione filo-occidentale. Ma, per evitare che questa sia supportata dall’Occidente stesso, Lukashenko ha dovuto stringere una sorta di tacito accordo con chi ha il potere di minacciare il suo regime, diventando l’unico attore dell’area in grado di far sedere, al tavolo di Minsk, sia Kiev e i suoi sostenitori occidentali, sia Mosca e le repubbliche del Donbass.

(Elia Bescotti)

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