L’insediamento di Trump e il dramma dei media italiani

Il discorso d’insediamento di Donald Trump, comunque la si pensi, non è stata solo una delle pagine storiche più importanti degli ultimi anni. È stato anche il momento centrale dell’ennesimo psicodramma svoltosi in due atti presso i principali studi televisivi italiani, probabilmente con contemporanee rappresentazioni nei loro correspettivi europei e, forse, occidentali.

I Atto (pochi minuti prima del discorso). La scena è stata riempita da manipoli di giornalisti e opinionisti salottieri, presunti esperti di politica americana, pronti a giocarsi la carriera per una svolta moderata del neo presidente in vista del suo insediamento. L’ aura istituzionale – era loro convinzione – avrebbe avuto la meglio, così da scansare ogni equivoco circa il Bluff chiamato Trump. Le cose, per loro sfortuna, sono andate in modo diverso. Certamente, è lo psicodramma ad averne guadagnato in suspense.

Ecco, dunque, il momento tanto atteso: giuramento e discorso d’insediamento del nuovo presidente. Se molti pensavano a un Tycoon ravveduto, la realtà li ha smentiti immediatamente. La mimica, l’energia e la capacità di stupire è rimasta la stessa. Ciò che, tuttavia, colpisce di Trump, a maggior ragione ora che è presidente degli Stati Uniti, è la capacità di lanciare pochi, chiari messaggi, con un linguaggio diretto, ma mai banale, con un contenuto potenzialmente rivoluzionario, rispetto alla politica degli ultimi decenni; e di farlo senza uscire mai dal seminato, dal rispetto, cioè, sostanziale della costituzione e della prassi politica americana.

Perfino quando a essere oggetto dei suoi attacchi – forse quelli inferti con maggior decisione e chirurgica precisione – è l’intero establishment politico, burocratico ed economico di Washington; e nonostante l’inedito e gravissimo sgarbo istituzionale del Partito Democratico, con l’assenza di molti rappresentanti del Congresso alla cerimonia, stante a significare un preciso intento di delegittimazione.

Un discorso che ha poi raggiunto il suo acme quando Trump ha ribadito il dovere di ogni classe dirigente di privilegiare il proprio mercato interno, in vista del primato degli interessi nazionali. Un costante riferimento alla base e all’origine popolare di ogni potere, che va ben oltre la storica dialettica statunitense tra centralismo e federalismo.

A ben vedere è nato un nuovo paradigma – sintetizzabile nella formula #CompraAmericano, #AssumiAmericani – che potrebbe archiviare anni di delocalizzazioni selvagge, che hanno condotto l’economia reale stelle e strisce a una fase d’inesorabile declino, bruciato milioni di posti di lavoro, e trasformato interi distretti industriali in silenziose e improduttive rovine. Questo nuovo paradigma – con sottointesa, ribadita e speriamo effettiva volontà di ritrattare il Nafta e congelare il Ttip – ha di per sé la portata di uno tsunami, pronto di riflesso ad abbattersi sul Vecchio Continente.

Pregevole, dunque, il riferimento a un’economia fatta soprattutto d’industria e infrastruttura: nel patriottismo trumpiano, tutti i cittadini americani sono chiamati a raccolta in un processo di ricostruzione fatto di strade nuove, ferrovie nuove, aeroporti nuovi, e così via. Sono parole che da molti anni non si sentono nella politica occidentale, e sorprende che il nuovo (e al contempo vecchio) verbo di sapore keynesiano venga proprio dagli Stati Uniti, che del processo di liberalizzazione e deregolamentazione sono stati alfieri e porta bandiera.

Storica, infine, sembrerebbe la visione trumpiana di un’america nuova, orgogliosa e patriottica, che dovrà brillare di una luce propria, che potrà essere d’esempio per le Nazioni che lo vorranno, ma senza imposizioni. Le forze armate, infatti, dovranno tornare a occuparsi esclusivamente della protezione dei confini nazionali dalle minacce esterne (clamoroso il riferimento alla matrice “islamista” del terrorismo internazionale contemporaneo). Che questo possa significare la fine della sanguinosa, costosa e inefficace politica di esportazione militare della democrazia, in linea anche con la promessa fatta in campagna elettorale di sdoganamento della Nato?

II Atto (reazioni al discorso). Quello di Trump, contro ogni previsione giornalistica, è stato un discorso roboante e viscerale, che sembra aver stupito l’Europa salottiera e perbernista, narcotizzata da un servilismo di comodo e acefala nella sua totale mancanza di iniziativa intellettuale e politica. I mass media occidentali, intrisi d’ipocrisia e politicamente corretto, sono sembrati addirittura intimoriti. Negli studi televisivi italiani è andata così in scena la seconda parte dello psicodramma: l’incredulità ha dato libero sfogo alla fantasia e alle interpretazioni più arbitrarie. Insuperabile, nella sua sinteticità, è stato in primis Alan Friedman: quello di Trump è stato un tipico discorso di “Populismo autoritario”. A parte l’uso ormai costante e fuori luogo del termine “populismo”, ci sarebbe da chiedere a Friedman cosa ci sia di “autoritario” nel concetto di #Americafirst, giacché – citando un passo del discorso di Trump- “quando si apre il cuore al patriottismo non c’è spazio per il pregiudizio”. E’ l’America tutta, di ogni etnia e di ogni contrada, a essere, infatti, chiamata a raccolta nella ricerca di un nuovo orgoglio nazionale, di una nuova american way of life.

Ovviamente, non poteva mancare il servizio lanciato da Antonio Di Bella, direttore di RaiNews24, che confrontava la cerimonia d’insediamento di Barak Obama al primo mandato, gremita di stars di Hollywood e musicisti pop, con quella assai più spartana e ristretta del Tycoon.

A seguito, lo studio di RaiNews24 ha reso omaggio alle virtù “teologali” dell’ex Presidente – integrità, umanità, onestà – e quasi non volendo accettare la fine del suo mandato, come farebbe un familiare nel difficile momento di lasciar andare il feretro di un proprio caro – ha seguito la coppia Barak-Michelle nel suo trasferimento in elicottero nella base di Andrews, al cui arrivo è seguito un discorso (ennesimo) di commiato; un riproporsi e parlare in pubblico, quello di Obama, a pochi minuti dall’insediamento di Trump, molto di cattivo gusto, rispetto ad una prassi che imporrebbe agli ex Presidenti un silenzio istituzionale di almeno un anno. Di Bella non ha certo perso l’occasione di trasmettere tutto in diretta.

Di tenore simile lo psicodramma nello studio de La7 di Enrico Mentana, dove il dibattito si è a lungo incentrato sulla Brexit e il pericolo per l’Unione europea di un possibile asse anglo-americano. Il paradosso della stampa progressista, ben rappresentata in studio da un Corrado Formigli in gran forma, sta nell’aver fatto dell’ombrello protettivo militare degli Stati Uniti un elemento imprescindibile, proprio nel momento in cui si fa paladina di un acritico e illogico europeismo. L’ipotesi che il neo isolazionismo trumpiano, con sponda anche britannica, possa essere l’occasione per una ristrutturazione geopolitica dell’Europa continentale, e di una più generale presa di coscienza di un’identità europea, libera dall’atlantismo, non è neanche presa in considerazione.

Ma che piaccia o meno, e al netto degli interessi contrastanti sull’altare dei quali i presidenti statunitensi devono cedere gran parte del vigore, entusiasmo e buoni propositi iniziali, l’America ha trovato un nuovo paradigma – #CompraAmericano, #AssumiAmericani – per la sua ennesima palingenesi. Con questo paradigma e con questa America Nuova, l’Europa dovrà ora confrontarsi, accettandone la sfida e rispondendo con estro, fantasia e intelligenza. Per il momento l’elettroencefalogramma è piatto.

Non resta che l’atto finale dello psicodramma del giornalismo italiano: l’inconsistente ironia di Beppe Severgnini, che, durante Otto e Mezzo di Lilli Gruber, classifica i fans di Trump, americani e non, nelle tre sottocategorie di 1) TrumPolli – gli stolti, i lavoratori facili ad essere imboniti, i poco colti; 2) TrumPazzi – estremisti di destra anti UE, religiosi bigotti; 3) TrumPò – ex comunisti, ex socialisti, ora un po’ leghisti, ora un po’ berlusconiani, tutti affascinati dai dazi e dal protezionismo. Se quella vista in televisione non è che una messa in scena, la morale di Severgnini è: l’America vuole ripartire? Nel frattempo, trumpisti di tutti il mondo scegliete la vostra collocazione.

(di Daniele Dalla Pozza)