Recuperare Keynes: per la forza dello Stato, per l’Italia

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Ci piace esordire così, schietti, convinti che tanto valga dire subito le cose come stanno, anche se qualcuno potrebbe definirci “utopici”. Ma ci mettiamo subito al riparo: il titolo di cui sopra va chiaramente interpretato, sebbene non deturpato nel suo significato immediato. Anche perché, banalmente, economie che oggi “recuperano” la forza dello Stato esistono, e l’esempio russo è quello più clamoroso, considerando anche i risultati enormi raggiunti negli ultimi 15 anni.

Va da sé che un keynesianesimo del XXI secolo possa riprendere soprattutto il messaggio filosofico dell’originale, nato negli anni Trenta del Novecento nel clima di enorme instabilità economica generato dalla crisi del ’29 e dalla depressione di tutto l’Occidente capitalistico. La teoria specifica, quella che vuole lo Stato attore co-protagonista dell’economia con ingenti investimenti utili a raggiungere il noto volume di “piena occupazione”, valeva ieri esattamente come oggi.

Un fattore la rinvigorisce, all’alba dell’anno 2017, forse più che nel 1936: l’indebolimento inesorabile della politica. USA, Inghilterra, Italia, Francia, Germania, Giappone e paesi minori sono infatti governati da classi dirigenti ormai completamente alla mercé dell’economia finanziaria ed industriale come mai era avvenuto prima.

Chi sostiene che questo sia sempre avvenuto è in errore. La politica ha sicuramente convissuto storicamente con l’economia e non sono rari i casi di ingerenze, ma la superiorità dello Stato un secolo fa, in Italia come nel resto del mondo, era incomparabilmente superiore a quella attuale.

Nel sistema lobbistico per eccellenza, quello statunitense, i gruppi privati iniziavano a guadagnare terreno già nel XIX secolo, ma bisogna anche ricordare che uno dei più celebri imprenditori americani del tempo, John Davison Rockefeller, pur arrivando ad un grado di controllo monopolistico del settore energetico, fu costretto nel 1911 a scorporare la sua compagnia per la violazione delle leggi antitrust in vigore dal 1890. È simbolico che 90 anni dopo, nel novembre del 2001, la Microsoft di Bill Gates raggiunga un accordo con la Casa Bianca per la nota denuncia intentatagli nel 1998 da 19 stati americani per concorrenza sleale e monopolio. Con tutti i limiti del caso, quindi, già la politica oltreoceano, un secolo fa, era molto più forte rispetto a quella odierna.

In ogni caso gli Stati Uniti si preparavano, senza ancora esserne consci, ad esportare un modello che alla metà del XX sarebbe stato seguito, seppur in modo parziale, dal resto dell’Occidente.

In un secolo fare politica ha, quindi, perso potere rispetto al fare economia. Prima parzialmente, con il secondo dopoguerra. Poi definitivamente, con il crollo del muro di Berlino che, estinguendo il socialismo reale, eliminava un enorme gruppo di pressione culturale (prima ancora che politico) in grado di esercitare sui Paesi della NATO un’influenza addirittura economica, visto che, con le dovute differenze reciproche e le eccezioni (USA, ovviamente, e dal primo mandato della Tatcher, anche la Gran Bretagna), ad Ovest le economie di tipo “misto” andavano per la maggiore, e lo Stato deteneva un ruolo importantissimo nel controllo dei principali settori strategici.

Questo fatto incontrovertibile, invece di spingere il cosiddetto “sentire comune” a desiderare un’inversione delle tendenze attuali, lo ha condotto sulla via della rassegnazione e dell’accettazione di ciò che sta avvenendo, reinterpretando pure la storia in modo contrariato.

Negli ultimi anni ho avuto modo di parlare con tante persone – anche discretamente acculturate – assolutamente convinte che “la politica e i partiti sono sempre stati privati” e che “tanto vale abolire il finanziamento pubblico”, senza contare gli sproloqui sulla aprioristica disonestà dei politici che dovrebbe portare ad allentare qualsiasi sostegno, pur ormai solo teorico, nei loro riguardi.

Il punto è di ordine filosofico: la politica, come tutte le cose umane, non è perfetta e mai lo sarà. Come tutte le cose umane vivrà fasi storiche migliori e peggiori, anche nel suo rapporto con gli interessi privati. La politica di un secolo fa non era perfetta esattamente come non lo è quella odierna, ma presentava diverse caratteristiche, oggi chimere, che sarebbero necessarie per un suo vero rilancio.

E la più importante di queste è la sovranità. Non solo nei riguardi delle ingerenze esterne, che partano da sponda Bruxelles o da sponda NATO, ma anche di quelle interne che possono condizionarne l’operato di governo. Ecco il senso di “recuperare Keynes”. Non per proporre necessariamente oggi una versione identica e fedele della sua teoria, ma per rilanciare l’importanza della forza dello Stato.

Si tratta di un elemento decisivo, perché al contrario di ciò che mondialisti, global, radical e liberisti ci raccontano con una propaganda ossessiva, la forza economica dello Stato comporta un effetto domino virtuoso contro le ingerenze delle imprese private e di potenze esterne.

Produce un naturale rafforzamento di una politica volta ai cittadini, ormai spariti dall’agenda di governi più interessati a favorire concetti distruttivi come l’immigrazione di massa, l’accoglienza fine a sé stessa, il progressivo aumento del divario tra Paesi sviluppati e sottosviluppati, l’abolizione dei diritti dei lavoratori. Produce un recupero dell’idea dello Stato interventista, nelle politiche sociali come nei piani industriali. Produce un’idea di comunità, anche culturale ed etnica, che il mondo globalizzato sta ammazzando senza pietà da almeno due decenni, con l’abolizione del valore del confine e di tante altre componenti che rendevano il bene “comune” quello difeso da un’entità precostituita.

Quando subito dopo l’ election day dell’ 8 novembre abbiamo ascoltato Mario Monti ammettere candidamente che “Donald Trump è un pericolo per la globalizzazione” non avremmo potuto che essere più d’accordo con lui. Con una differenza fondamentale: noi ce lo auguriamo. Se non altro, speriamo in un’inversione di tendenza che il presidente eletto sembra del tutto intenzionato a voler perseguire: l’annuncio dell’imposizione dei dazi al 35% alle aziende che delocalizzano la propria forza lavoro all’estero, come è avvenuto per la Carrier, preannuncia un cambiamento quanto meno possibile. Nulla di propriamente keynesiano per carità, ma certamente un ritorno all’idea di mercato interno che negli ultimi anni è stata ridimensionata enormemente.

Quella globalizzata è, del resto, una società di impoveriti cronici e senza confini. I vantaggi che ha portato sono per lo più effimeri, in nulla decisivi per la ricchezza e il benessere dei popoli che l’hanno abbracciata, che 40 anni fa, con maggiori controlli, dazi doganali, sovranità monetaria e politica erano certamente più ricchi di oggi.

Un messaggio lanciato con una certa forza dalla Russia di Vladimir Putin, Paese completamente trasformato dopo i tragici anni di El’cin e rinvigorito proprio in quella classe media che l’Occidente sta deprimendo da decenni e che nella Federazione è invece esplosa: da meno di una decina milioni di persone nel 2000 agli oltre cento nel 2013. Ironico, se si pensa che il primo problema affrontato dalla Russia post-comunista fosse proprio l’arricchimento di pochi magnati contro un impoverimento generale della società. Nel 2011 circa il 12% dei russi viveva sotto la soglia di povertà, un calo dal 40% rispetto al 1998, il momento peggiore dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

All’inizio del XXI secolo i consumi interni si sono impennati, così come lo stipendio nominale dei russi: nel 2013 quest’ultimo è arrivato a quasi 1000 dollari al mese, rispetto agli 80 che si potevano guadagnare nel 2000. Non mancano i problemi distributivi, la Russia non è aliena da contraddizioni in tal senso né può definirsi certamente una società perfetta, ma l’andamento dell’economia negli ultimi 15 anni è la prima dimostrazione che, all’alba del 2017, uno Stato interventista è possibile e può portare benefici sociali rilevanti.

Del tutto evidente che il maggiore ostacolo a questa realtà concreta sia il mondo occidentale nel suo complesso, con le sue numerose sovrastrutture politico-bancarie a governare le società verso uno stato di totale multiculturalismo e – come conseguenza inevitabile – appiattimento economico.

È così, quindi, che Oltre la Linea si presenta. Come un’ associazione umana e culturale, prima ancora che un progetto editoriale, consapevole dei limiti antropologici ma desiderosa di affrontarli anziché rifuggirli.

Gli Stati nascono per governare l’economia e la finanza, per indirizzarle e non per esserne i burattini, diversamente non possono essere definiti tali. Nascono per curare e proteggere i membri delle proprie comunità, non per lasciarli in balia di una concorrenza salariare selvaggia e spietata con gli immigrati. Nascono e vivono per preservare la cultura e le tradizioni di un Paese e non per estinguerle. Questo non perché prima fossero perfetti, ma perché oggi siamo di fronte soltanto a sbiaditi fantasmi.

Ecco perché siamo per la sovranità dello Stato e vogliamo che riacquisti il proprio potere economico, ecco perché desideriamo l’emancipazione delle nazioni oppresse dal giogo in cui sono imprigionate dal 1945 in poi e – ancora peggio – dal 1991 in avanti, il riscatto delle parti deboli della società e la loro assoluta tutela. Anime all’apparenza diverse, come quelle che hanno partorito Azione Culturale, si ritrovano nelle loro identità di fondo in Oltre la Linea, che per promuovere l’inversione di tendenza si rifà tanto all”Italia storica quanto alla Russia.

La prima è un Paese spesso bistrattato ingiustamente, viste le menti che ha prodotto in secoli di storia anche precedenti all’unità. Un Paese che ha promosso il concetto di economia mista come pochi altri. Un Paese che ha costruito lo stato sociale e l’industria pubblica come nessuno in Occidente negli anni Trenta, evolvendo enormemente l’apporto della Germania di Otto Von Bismarck che molti considerano, non a torto, un iniziatore in tal senso. Un Paese che nel secondo dopoguerra ha mantenuto, pur con dei limiti, un impianto economico rispettoso dei diritti delle categorie deboli come dello sviluppo.

Un Paese che, però, ha subito due grossi traumi che lo hanno condotto ad una degradazione etico-culturale senza precedenti: la sconfitta del 1945 e l’ingresso nel consesso europeista, di fatto l’ultimo a toglierle quel barlume di sovranità che un tempo le apparteneva.

La seconda è l’unica vera potenza politica realmente indipendente in Europa, l’unica tra gli stati a noi vicini che abbia proposto un modello economico sostenibile, l’unica in cui lo Stato controlla gli asset strategici e guida i privati anziché subirne le continue ingerenze. I numeri della crescita russa, come società e come potenza politica, sono evidenti nonostante le crisi internazionali che ha dovuto affrontare negli ultimi anni.

Da questi elementi noi ripartiremo: con lo stesso spirito che aveva animato Azione Culturale, con molti più mezzi, maggiori convinzioni e una rosa di collaboratori più compatta che mai. Collaboratori genuini che fanno della loro passione e del loro desiderio di un Paese migliore le loro ragioni primarie, che studiano per questo, ne scrivono e talvolta lo testimoniano.

Recuperare Keynes. Recuperare il sociale. Recuperare l’Italia e la sua sovranità. A voi verrà offerto il frutto più genuino del nostro lavoro. Grazie.

(di Stelio Fergola)

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