Il Profeta, il Faraone e la retorica salafita

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Nel suo saggio del 1984 intitolato Le Prophète et Pharaon, l’orientalista Gilles Kepel presentava un approfondito studio sulla galassia di movimenti islamisti che popolarono l’opposizione più radicalizzata ai governi dell’Egitto post-coloniale dal 1952 fino agli inizi degli anni ‘80. La narrazione islamista, veicolata dagli strali takfiri di Sayd Qutb, Shukri Mustafa, ʿAbd al-Ḥamīd Kishk, ‘Abd al-Salam Faraj, mirava a costruire una contrapposizione ideologica tra i ‘seguaci’ del Profeta e la società jahilita (pagana in senso pre-islamico) rappresentata dai Faraoni, i capi di Stato laici di qualsivoglia orientamento ideologico-politico.

A nulla valsero i tentativi dell’autorevole shaykh Muhammad ‘Abd al-Latif al-Sibki di persuadere i seguaci di Qutb circa l’illeceità e blasfemia della loro reinterpretazione del concetto di ‘Jahiliyya’ in senso estensivo, riferendosi piuttosto quel termine solo al periodo precedente la predicazione di Maometto. I nuovi seguaci del “Profeta”, più vicini in realtà al giurista Taqi ad-din Ahmad ibn Taymiyya (1263-1328), “padre del movimento salafita attraverso i secoli” – come ha ricordato il prof. Claudio Mutti citando Herny Corbin – potevano contare nella loro guerra ideologica alle classi dirigenti egiziane sugli avversari regionali dell’Egitto: in primis le petromonarchie saudite, già cooptate dagli Stati Uniti nel progetto “Omega” del 1956 con lo scopo di contenere strategicamente il panarabismo. La storia dell’Egitto contemporaneo può essere sì interpretata attraverso questa opposizione tra islamisti e gruppi dirigenti laici garanti dello Stato “jahilita”, a patto che la si legga in chiave politica o geopolitica, e non teologica.

I primi impegnati nel tentativo di perseguire una “rivolta permanente” (l’espressione vagamente trotzkista è stata impiegata dallo stesso Kepel) sostenendosi attraverso il finanziamento delle petro-monarchie del Golfo anti-panarabiste e le agenzie di intelligence occidentali in funzione anti-comunista, secondo la Dottrina Eisenhower perseguita in Medio Oriente; i secondi, con Nasser e i suoi successori, impegnati a dar vita ad un nuovo ordine mondiale all’interno della NAM, promuovendo una piena indipendenza dei Paesi del Terzo Mondo tra le pressioni della geopolitica bipolare e quelle della politica di ricostruzione e sviluppo economico-sociale impostesi ad un Egitto decolonizzato.

La vicenda della “primavera egiziana” preannunciata nel gennaio 2011 – che aveva visto il pronto adattamento e la traduzione in arabo di un manuale dell’Albert Einstein Institute sulle tecniche di sovversivismo pacifico –, la spregiudicata vittoria della Fratellanza sugli altri gruppi di opposizione con l’elezione ampiamente disertata di Morsi, ed il successivo intervento del generale al-Sisi a fianco del movimento di opposizione Tamàrrud, ha rinnovato la retorica e la strategia discorsiva islamista costruita sull’opposizione di Profeta-Faraone, forte questa volta del pieno appoggio mediatico occidentale.

Se nel novembre 2012 per Mohamed El Baradei, leader dell’opposizione liberale post-Mubarak, Morsi era il “nuovo Faraone”, non vi sono dubbi che oggi per la gran cassa mediatica occidentale il nuovo Faraone sia il presidente al-Sisi, succedaneo a Morsi. Mantenendo inalterata la figura simbolica ma rovesciandone il valore, per l’archeologo ed ex Ministro delle Antichità Zahi Hawass la figura del presidente al-Sisi evoca la memoria di Mentuhotep II, e ha definito il suo ruolo nel contesto di incipiente anarchia istituzionale e sociale come “la sola speranza” per l’Egitto.

Rispetto alle interpretazioni in chiave classista, ‘diritto-umanista’, o partitica, questa categorizzazione ha indubbiamente il merito di indicare un’antitesi ideologica e politica peculiare alla storia della società civile egiziana, divisa in modo interclassista tra i fautori della umma, con i suoi legami orizzontali transnazionali, e i custodi della Repubblica presidenziale. È nel quadro dell’Egitto post-Mubarak, in cui la traiettoria della “rivoluzione” pare essersi indirizzata da istanze economico-sociali a rivendicazioni di una maggiore confessionalizzazione della società accompagnate da una drammatica escalation di violenza settaria, che il nuovo establishment egiziano ha adottato un rafforzamento delle misure di sicurezza dello Stato.

Il Dipartimento di Ricerca Tecnica (TRD) della Direzione Generale dell’Intelligence (GID) è il pilastro dell’apparato di sicurezza egiziano, recentemente impegnato in “sforzi significativi per sviluppare l’infrastruttura d’intelligence che dovrebbe permettere al governo d’impedire attentati e sconfiggere il terrorismo nella regione”. Con il consolidamento dello Stato egiziano, l’introduzione di nuove misure di controllo della società civile e l’adozione di nuove tecniche di controspionaggio dal 2013 ad oggi, la retorica del Prophète et Pharaon si è potuta arricchire di nuovi elementi.

Si tratta di una strategia narrativa che in parte è propagandata dai gruppi salafiti vicini alla Fratellanza, in parte è alimentata dai ‘regime changers’ occidentali, in ottemperanza a standard liberal-democratici estranei alla storia egiziana. A rafforzare l’ipotesi di una “rivoluzione colorata” con un carattere esogeno e artificioso per l’area BMENA (Broader Middle East and North Africa), è la recente dichiarazione del presidente tunisino Beji Caid Essebsi in un’intervista del 19 marzo 2016 rilasciata al “Washington Post”, che confermava il carattere assolutamente occidentale di lettura della “primavera araba” rispetto alla percezione degli attori regionali: “la prima volta che ho sentito parlare di ‘primavera araba’ è stato durante la riunione del G8 a Deauville, in Francia, nel 2011”.

(di Davide Ragnolini)

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