Dalle squadre di paese alle svendite asiatiche: crollo di una tradizione

 

Le squadre di calcio di paese sono, da inizio ‘900, il simbolo dell’Italia tradizionale, un po’ come il campanile e le sagre paesane estive. La squadra del proprio paese o addirittura del proprio quartiere, ha da sempre rappresentato un forte collante tra persone che abitano lo stesso territorio.

La domenica pomeriggio c’è una scusa in più per uscire di casa, ci sono i ragazzi che giocano e che hanno l’onore e l’onere di far rispettare il proprio territorio; poco conta poi che non si vinca nulla o che non ci siano veline sexy ad attendere fuori dagli spogliatoi, quello che si persegue fino all’ultima goccia di sudore è la vittoria, anche solamente per evitare le battutine della domenica sera al bar dello sport.

L’aspetto comunitario che il calcio o più in generale lo sport a livello dilettantistico può dare, è fortemente presente e molto affascinante; oltre ai giocatori infatti, ad occupare un ruolo importante al fine del funzionamento di queste piccole realtà territoriali, troviamo l’allenatore che quasi sempre è un signorotto della zona con qualche chilo in più, che da giovane ha giocato a calcio diversi anni e che per questo motivo ha tutto il diritto di sentirsi il Trapattoni del quartiere…niente corsi a Coverciano per lui, solo tanto amore e passione per questo sport.

Troviamo il dirigente accompagnatore che molto spesso è un genitore di uno dei giocatori e che decide di sacrificare qualche ora del suo tempo libero per portare borse, borracce e palloni e che durante la partita bisogna legare alla panchina per evitare che faccia volare qualche insulto di troppo ai primi errori dell’arbitro.

Troviamo il massaggiatore che di giorno lavora in fabbrica per guadagnarsi il pane e di sera, con le mani ruvide come carta vetrata, maltratta le cosce dei giovani calciatori sentendosi Dottor House. Infine troviamo il presidente, colui che sgancia il grano e che permette il funzionamento di tutta la “baracca”, solitamente è un piccolo industriale della zona che si accontenta di apporre sulle magliette della squadra il nome della propria officina meccanica o del proprio negozio in cambio dei finanziamenti per l’iscrizione alla federazione.

Sullo sfondo di questi ruoli ovviamente c’è il tifo che è rappresentato dai vecchietti di paese, dai genitori dei ragazzi e dalle varie mogli, fidanzate, amanti dei giocatori stessi… Si denota così un quadro sociale dove tutto il paese ha un ruolo, dove i colori stampati sulle sgangherate magliette rappresentano un vessillo da supportare, un’ identità da custodire e da far rispettare al nemico acerrimo rappresentato dal paese confinante…quello che quando ci si gioca contro è Derby…altro che Milan-Inter o Samp-Genoa.

Ovviamente oltre al calcio dilettantistico uno degli archetipi della nostra cultura è rappresentato dal mondo del calcio professionistico, composto da squadre che rappresentano le più grandi città d’Italia, dove non c’è più il piccolo proprietario dell’officina meccanica a sponsorizzare e a foraggiare la squadra bensì il grande imprenditore.

Ed è così quindi che le più ricche famiglie delle maggiori città italiane, durante lo scorso secolo sono andate a capo dello squadrone di città. Gli esempi in epoca moderna più importanti e significativi sono i Moratti e i Berlusconi a Milano, gli Agnelli a Torino, i Sensi a Roma, Ferlaino a Napoli ecc…

In questo modo quindi, si è sempre mantenuta la matrice territoriale e identitaria a far da comune denominatore tra squadra, proprietà e tifoseria; emblema di questo aspetto è certamente la cadenza dialettale degli imprenditori sopracitati che rispecchiavano fedelmente il luogo di nascita della squadra.

Purtroppo questo continum tra territorio, tradizione e sport negli ultimi anni sembra essersi interrotto; ormai infatti il calcio viene solo visto sotto il punto di vista utilitaristico e mercantilistico e questo ha spianato la strada ai vari imprenditori cinesi e statunitensi che stanno fagocitando le nostre squadre più blasonate, mettendo alla presidenza delle stesse, magnati della finanza e dell’industria che non hanno mai tirato un calcio ad un pallone e che dello sport più bello al mondo non capiscono assolutamente nulla.

Il mercato extra europeo è troppo allettante per i signori devoti al soldo che vedono nel calcio un’altra opportunità da non farsi scappare. I proventi dei vari diritti vanno cosi oltreoceano, i grossi gruppi multinazionali diventano sponsor ed ancora una volta il tessuto sociale e tradizionale che avvolgeva queste grosse realtà viene sfaldato senza essere nemmeno utile al territorio nazionale.
Come può un cinese rappresentare la Milano sportiva nel mondo e come può uno statunitense sentirsi parte integrante della squadra che simboleggia la città più bella del mondo? Per certe cose i soldi non bastano.

Le squadre di calcio in Italia hanno da sempre avuto un grosso ruolo sociale, forse addirittura troppo grande, sfociando in becere esagerazioni e fungendo da distrazione di massa dei problemi reali della gente comune, d’accordo, ma l’uomo ha bisogno anche di questo, di esultare, di infuriarsi, di gioire, di sentirsi parte di qualcosa più grande di lui, di identificarsi in una bandiera, non solo di guardare ventidue ragazzotti che rincorrono un pallone.

Cosa ne sanno questi signori di cosa rappresenti il calcio in Italia? Cosa ne sanno di tutti i ragazzini che crescono nelle vie delle nostre città inseguendo un pallone ed inseguendo il sogno di vestire la maglia della propria squadra? Cosa ne sanno delle chiacchere da bar e degli sfottò tra tifosi di fazioni opposte? Cosa ne sanno dell’amicizia e dei legami che il calcio crea?

E’ caduto un altro baluardo della nostra cultura, ed è caduto come sempre in silenzio, senza far rumore, all’insegna della normalità, perchè forse, ormai, in quest’epoca tutto è normale: anche il paradosso.

(di Marco Terranova)