Rivoltare l’Europa per salvare l’Europa

A partire dal fallimento di Schengen e dalle barriere che molti paesi hanno già costruito a difesa dei propri interessi nazionali, di fronte al progressivo sgretolarsi di ogni certezza costruita durante un sessantennio di Europa war-free (almeno nei suoi confini interni), è ancora possibile per l’Occidente parlare di Unione e di valori europei?

Dai corridoi dei piani alti delle istituzioni di Bruxelles arrivano sempre più fondati rumors su un presunto tentativo, già in atto secondo indiscrezioni, di costruzione di un’Unione nell’Unione, che leghi e accomuni, a partire dalla libera circolazione delle persone che proprio oggi viene a mancare nei paesi attraversati dalle rotte dei migranti, le nazioni economicamente sane, “progredite”, portatrici di interessi condivisi.

I valori e i lasciti di un mondo che 60 anni fa si è svegliato sulle rovine della tragedia del secondo conflitto mondiale, fiaccate dagli anni della crisi e dal tracollo finanziario dell’Eurozona, dalle politiche di Austerity imposte dalla Germania ma osteggiate persino dall’Ocse, dalla crescente tensione sociale nutrita dalla recessione, cedono sempre più terreno a sentimenti antieuropeisti o euroscettici. Avranno ragione i Salvini, Le Pen, Farage di turno quando dipingono un’Europa incapace di far fronte ai grandi problemi internazionali, ma bravissima a legiferare sui millimetri di vongole pescate nel Mediterraneo?

Un fatto è che l’Unione non sia mai riuscita a realizzare i tre punti programmatici di Maastricht, il trattato che nel 1992 ha dato vita all’Eu come la conosciamo oggi, inserendosi nella narrazione europea contemporanea come punto d’approdo delle passate esperienze CECA, EURATOM e CEE. L’intero documento fondante faceva perno su tre principi chiave, i cosiddetti “pilastri”. L’unione monetaria, la creazione di una politica estera e di difesa comune e la cooperazione giudiziaria tra paesi aderenti. Quanto rigidamente è stato creato il mercato europeo, l’unione economico-finanziaria dei paesi membri su base parametrica, il vincolo di bilancio sancito dal Fiscal Compact, tanto inattuate sono rimaste le politiche comuni. Anche se non sono mancate, negli anni, spinte riformatrici di europeisti convinti ma decisi a cambiare le regole del sistema dall’interno.

Punto di arrivo di questo processo il trattato di Lisbona del 2007, teso a rafforzare il ruolo del Parlamento nel processo decisionale europeo, ma nient’altro che una timida risposta alla mancanza di democraticità e di inclusione di un sistema istituzionale centralizzato di cui Commissione e Consiglio hanno sempre rappresentato i vertici. La scia della mancata costruzione di politiche comunitarie e di risposte efficaci e compatte per fronteggiare i cambiamenti e i pericoli esterni all’Unione hanno avuto riflessi sulle crisi, di varia natura, che l’Unione si è trovata ad attraversare. Dalla scongiurata minaccia Grexit di Tsipras alle schizofreniche richieste balcaniche di sanzioni nei confronti della Russia. Non è un caso che a discutere a Minsk sulla questione ucraina, in seguito all’annessione russa della Crimea, siano andati Merkel e Hollande.

Non è stata l’Europa, che sanzionando Putin punisce se stessa, l’artefice del negoziato per un “cessate il fuoco” nella parte sud orientale del paese, dove tuttora russi ucraini si scontrano con ucraini russi con lo spettro degli Spetsnaz sullo sfondo. Anche se l’argomento è scomparso dalle agende dei nostri media. Come non è un caso che il movimento nato dalle proteste di piazza Maidan, a Kiev sia rimasto inascoltato e le sue richieste disattese e che, altrettanto in fretta, vi si siano infiltrate frange ultraconservatrici per scomporre le carte in tavola al servizio di governi fantoccio.

La rivista italiana di geopolitica Limes ha spesso imputato all’Europa una “mancanza di potere contrattuale” nello scacchiere internazionale, in qualche modo stigmatizzando il non ruolo dell’Unione e i riflessi che ha verso l’esterno e la sua incapacità di prendere decisioni. Parliamo della stessa (non) Europa che oggi, in un puzzle internazionale dai molteplici dossier aperti che vede nel Medio Oriente e nel Nord Africa le sue zone nevralgiche, si trova a dover fronteggiare flussi migratori senza precedenti, estremismo islamico di natura fondamentalista, elevato rischio di attentati all’interno dei suoi confini e infiltrazioni di foreign fighters dalle rotte dei Balcani.

Della stessa Europa, cronicamente incapace di parlare all’unisono, che potrebbe dissolversi sotto i colpi dell’euroscetticismo, delle migrazioni di massa e dei legittimi tentativi di singole nazioni di riappropriarsi di spazi di sovranità (Brexit) a cui il Vecchio Continente ha da tempo abdicato in nome dell’Euro e dei parametri degli eurocrati. E parliamo della stessa Europa che si nasconde dietro gli Stati Uniti, che strizza l’occhio e stacca generosi assegni alla Turchia doppiogiochista di Erdogan.

Di fronte a un quadro sempre più intricato di mancanze e divisioni interne, il bivio davanti al quale si infrange il miraggio di una Europa unita negli ideali ancor prima che nell’azione politica, è giusto domandarsi a cosa sia servito sacrificare la propria sovranità nazionale o “diritto all’autodeterminazione” sull’altare dell’unione economico-monetaria. E se non vi sia, oggi forse più che mai, la necessità di ripensare dalle fondamenta l’intero sistema. Un sistema in grado di spendere 3 milioni di euro per organizzare eventi promozionali che fanno capo al Parlamento, ma completamente disarmato di fronte alla necessità, imposta dalle circostanze, di assorbire 100mila rifugiati dividendoli tra gli Stati membri.

(di Giovanni Panebianco)